Giuseppe D’Acunto ha curato per la collana Lessico pandemico, edita da Asterios, la voce “Ferita”. Il volume – esile e densissimo – è del tutto privo di riferimenti espliciti al tempo che stiamo vivendo. I due termini (Ferita – Pandemia) rimangono divisi da uno iato entro il quale il lettore è chiamato a collocarsi. Non si tratta di riaccostare questi due lembi per suturarli, ma di provare ad abitare la distanza che li separa.
Pensare la pandemia attraverso la nozione e l’immagine della ferita significherà in primo luogo intenderla come l’interruzione della continuità di ciò che ci è più proprio. La ferita – la pandemia, come discontinuità dell’autós.
Ogni interruzione del proprio è sempre anche un’apertura attraverso la quale scorgere l’altro. La ferita, diceva Aldo Carotenuto a cui D’Acunto qui si rifà, è una feritoia, uno spiraglio, attraverso il quale possiamo guardare la nostra interiorità e, mediante questa, entrare in contatto con l’interiorità altrui. La ferita è un occhio “che guarda verso dentro e verso fuori”. È la condizione a partire dalla quale diventa possibile guardare, guardarsi, lasciarsi guardare. E guardare, lo sappiamo, non è vedere. L’occhio che vede considera l’altro nell’ottica dell’appropriazione, si approssima all’altro per cancellarne l’alterità, per farlo proprio. L’occhio che guarda è una ferita esposta all’altro, aperta alla meraviglia dell’inaspettato.
“[La nostra ferita può] trasformarsi in feritoia, ossia può diventare la matrice del nostro relazionarci con il mondo […] l’aculeo dell’interesse e della curiosità verso la vita”.
A. Carotenuto, Vivere la distanza, Bompiani, 1998 p. 166
Questa dolente apertura all’altro, questa possibilità della contaminazione, è anche l’origine di ogni creatività.
“Se il destino non ci ferisse […] non potremmo diventare ciò che realmente siamo”
A. Carotenuto, I sotterranei dell’anima, Bompiani 1993, p. 153
Al di là di ogni eziologia psicologica della ferita, D’Acunto si pone sulle tracce di una sua dimensione ontologica. Secondo la filosofa Maria Zambrano, il taglio del cordone ombelicale, segnando la separazione dal corpo della madre, lascia in noi una ferita che non è destinata a rimarginarsi. In una certa misura noi siamo questa ferita. Essa è ciò a partire da cui ci costituiamo come individui. Differenziandoci dall’unità orginaria mediante un taglio, avvertiamo il nostro essere come una mancanza da colmare. Ogni creazione umana, compresa la creazione di sé, scaturisce da questa originaria ferita.
“[Una ferita aperta è ciò che] ogni uomo, in quanto tale, ha in sé fin dalla nascita, anche se di solito cerca di occultarla o di tenerla chiusa ad ogni costo. […] Ogni creazione dell’uomo germoglia da quella ferita”.
M. Zambrano, Per abitare l’esilio. Scritti italiani, Le lettere, 2006 pp. 167-168.
Se così stanno le cose la continuità dell’autós è già da sempre interrotta e la pretesa di essere immuni da ogni contaminazione, di scongiurare, nascondere o guarire la ferita, si configura come una paradossale rinuncia a diventare se stessi.