Occorrerebbe imparare a guardare con gli occhi dell’artista. Ecco un buon esercizio di trasformazione di sé e del mondo.
In una recente conferenza a margine della mostra d’arte contemporanea E luce fu, il filosofo Silvano Petrosino ha sostenuto che la peculiarità dell’artista è la capacità di guardare. Ne siamo capaci tutti in realtà, ma spesso ce ne dimentichiamo. Ci limitiamo a vedere, ma non guardiamo. Siamo affetti da una certa debolezza dello sguardo, da una sorta di cecità che dipende solo da noi. In esergo alla sua Piccola metafisica della luce Petrosino cita Saramago:
“Se vuoi essere cieco, lo sarai”.
J. Saramago, Cecità, Einaudi, Torino 1996, p. 124.
Ma che differenza c’è tra vedere e guardare? E qual è la facoltà dell’artista che dovremmo esercitare? Quando vediamo senza guardare, le cose sono presenti nel nostro campo visivo in una sorta di indifferenza. Esse si limitano ad apparire. Le vediamo, ma non ne cogliamo la specificità, l’unicità. Alla modalità del vedere si accompagna un certo modo di considerare la cosa come oggetto d’uso. Si tratta di una modalità del tutto naturale, indispensabile. Ma siamo capaci anche di un altro sguardo. Guardare significa in primo luogo prendersi cura della cosa che si guarda, considerarla non più in funzione della sua capacità di soddisfare il nostro bisogno, ma per quello che è.
“Da cosa si distingue l’artista dall’uomo comune? – E poi ognuno di noi è anche artista – Esattamente dal fatto che l’artista si prende cura, si sofferma, su quello che invece nella nostra vita quotidiana è semplicemente un oggetto”.
Mercoledì dell’arte contemporanea con Silvano Petrosino e Vanna Pescatori, Fondazione CrC
Petrosino porta un esempio semplice ma significativo. Le mele che vediamo al mercato e che scegliamo per fare una torta le valutiamo sulla base del loro essere per noi buone, sane ecc… L’artista – poniamo ad esempio Cezanne – è in grado di sospendere questa modalità di rapportarsi alla cosa e la guarda in un modo nuovo, che la lascia essere quello che essa è in sé. Ciò che lo sguardo dell’artista guarda e che la sua opera conserva non è una mela tra le altre, ma questa mela. Nella prospettiva di Petrosino, dunque, la specificità dell’arte non risiede tanto nel rendere visibile l’universale nel particolare, ma nel far risplendere il particolare, lasciando che esso si stacchi dallo sfondo indistinto a cui il cieco vedere quotidiano lo lascia ancorato. Se il vedere fa apparire la cosa, il guardare la lascia risplendere, lascia che essa sia se stessa. Petrosino nomina qui un movimento che è al contempo un andare verso la cosa e un indietreggiare. Opera, tra le pieghe di questo discorso, una certa logica dell’ospitalità sulla quale dovremo tornare.
Lo sguardo dell’artista si prende cura della cosa lasciandola essere quello che è. L’essere se stessa della cosa è il suo splendore. Nel quadro di un’estetica dell’esistenza dovremmo chiederci: cosa succederebbe se oltre a imparare a vedere il mondo e gli altri con gli occhi dell’artista riuscissimo anche a piegare quello sguardo su noi stessi, sulla nostra stessa vita? Essa uscirebbe dalla dimensione anonima e ripetitiva di quella quotidianità standardizzata in cui a volte si perde e la vedremmo risplendere della sua unicità. Smetterebbe di essere una vita e si rivelerebbe come questa vita.
Guardare se stessi con gli occhi dell’artista significherà allora aver cura di sé, lasciarsi essere ciò che si è, accogliersi.