La filosofia può curare?

Nel suo pamphlet dedicato alla consulenza filosofica, Pier Aldo Rovatti muove da una domanda che a distanza di quarant’anni dalla nascita della philosophische Praxis continua a destare sorpresa nei non addetti ai lavori: la filosofia può curare? Se Lou Marinoff asseriva, già nel 1999, che Platone è meglio del Prozac, Rovatti risponde con maggior cautela.

Pier Aldo Rovatti, autore di "Là filosofia può curare?"
Pier Aldo Rovatti

«La filosofia non è una cura, se consideriamo la nozione normale di cura intesa come un trattamento tecnico, e dunque in qualche modo medico, di sintomi e disturbi che si configurano come malattia o patologia di tipo specifico. Chi va dal filosofo non è un malato, e se lo è ha sbagliato indirizzo».     

Pier Aldo Rovatti, La filosofia può curare?
Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 12.

Emerge qui tutta la distanza tra il modo di intendere la cura proprio della consulenza filosofica e l’accezione corrente di cura come terapia. La cura filosofica non si rivolge alla patologia, ma in primo luogo a noi stessi, che per lo più ci riteniamo “normali” e “sani”, ma che non per questo siamo senza problemi, dilemmi esistenziali, nodi relazionali da sciogliere o semplicemente da comprendere. Questa “cura”, allora, avrà la funzione di «sbloccare la paralisi del pensiero, talora murato in un’unica dimensione o in un unico scenario o […] paradigma, per tentare di fornire più spazio o più “gioco” a forme alternative di rappresentazione del proprio vissuto» (Ivi, pp. 13-14).

Il prevalere della cultura terapeutica, osserva ancora Rovatti, spinge il consultante a vivere ogni impasse della vita come una sofferenza da lenire, se non come una malattia da curare. In tal senso il ruolo del consulente filosofico è anche quello di decostruire simili aspettative di “guarigione”.

«Parole come “rischio” o “spaesamento” dovrebbero funzionare, piuttosto che come sintomi di un disagio, cioè di qualcosa da curare, come aperture di esperienza, cioè – paradossalmente – come la cura stessa o un suo primo affacciarsi».

Pier Aldo Rovatti, La filosofia può curare?
Raffaello Cortina, Milano 2006
, p. 21.

In ultima analisi la filosofia non cura, se per cura si intende un lavoro di normalizzazione che cancella il sintomo lasciando inalterata l’esistenza del consultante. L’avvertimento dell’impasse va inteso invece come un segnale capace di suggerire una svolta, un percorso alternativo o un cambiamento di andatura.

Se la filosofia si adeguasse al modello terapeutico normalizzante finirebbe per diventare connivente con quella realtà su cui invece deve esercitare una presa critica e trasformativa. Il filosofo pratico, proprio nella misura in cui esce dalla torre d’Avorio e decide di fare i conti con la realtà, corre il rischio di rimanere impigliato in essa e di diventare ingranaggio dei dispositivi di potere entro cui siamo sempre presi.

Rovatti si richiama apertamente al pensiero di Michel Foucault e raccomanda di non accostarsi alla consulenza filosofica e ai suoi testi senza prima aver letto Sorvegliare e punire e i corsi sul Potere psichiatrico e sull’Ermeneutica del soggetto. Il merito principale del filosofo francese è quello di aver posto in relazione il tema della filosofia come cura di sé con la questione del potere.

Il consulente filosofico «deve accorgersi che è all’opera un dispositivo di potere […] che agisce attraverso la sorveglianza e l’autosorveglianza. È l’identità stessa del singolo individuo che viene definita attraverso l’essere malato e quindi bisognoso di cure» (Ivi, p. 26)

Il potere di cui parla Foucault non è espressione della volontà cosciente di qualcuno, ma è per sua natura anonimo e privo di localizzazione. Se i dispositivi di potere determinano i modi in cui si costituiscono i soggetti, una cura di sé che voglia recuperare spazi di libera costituzione di sé non potrà prescindere da una accurata analisi di questi dispositivi. Senza questo lavoro di comprensione del proprio tempo, la filosofia rischia di tradire la sua originaria vocazione e di declinare la cura secondo quel paradigma terapeutico dominante che Rovatti ritiene vada messo in discussione e non assunto acriticamente. Solo così sarà possibile individuare delle pratiche idonee a resistere al potere.

«Foucault […] mette in campo la nozione di “resistenza” come tentativo di smarcarsi dal paradigma disciplinare attraverso manovre di evitamento, non risposta all’appello del potere, tattiche di spiazzamento […]. Tutte queste mosse […] confluiscono successivamente nel tema dell’etica e dell’estetica dell’esistenza e nel progetto stesso della cura di sé come pratica di libertà».

Pier Aldo Rovatti, La filosofia può curare?
Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 28.

In una delle ultime interviste rilasciate prima della morte Foucault interpreta l’imperativo socratico “occupati di te stesso” come un invito a mettere «in discussione tutti i fenomeni di dominio» per fondare se stessi «in libertà, attraverso la padronanza» di sé (M. Foucault, Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 293-294).

Rovatti, con un gesto filosofico che più o meno scopertamente sembra correggere Foucault con Derrida, osserva che i termini «libertà e padronanza sembrano in contraddizione». La padronanza, per quanto si configuri come un dirigere se stessi per non essere diretti da altri, reinscrive il soggetto entro una logica di dominio. La stessa idea di fondazione, poi, risulta in contrasto con il senso stesso di una filosofia che non solo ha annunciato la fine dell’uomo, ma ha consegnato la costituzione di sé alle pratiche di resistenza ai dispositivi di sorveglianza e autosorveglianza.

Il soggetto che si prende cura di sé, in ultimo, non va pensato – e su questo lo stesso Foucault è piuttosto chiaro – come un soggetto sovrano che può fare di sé ciò che vuole. È per questo che Foucault preferisce parlare non tanto di soggetti, quanto di processi di soggettivazione. Questi processi non sono il frutto dell’attività né di un io sostanziale né di un io trascendentale autotrasparente e padrone di sé, ma la risultante di campi di forze. La pratica filosofica non solo dovrà decostruire termini come padronanza, fondazione, soggetto, ma, agendo sulle parole, dovrà arrivare alle cose, ovvero alla nostra stessa rappresentazione di noi in quanto soggetti sovrani autofondati. La cura di sé assume, in ultimo, la forma di una decostruzione di sé, di una rinuncia al dominio, di un abbandono. 

«Su questo punto si gioca tutta la differenza che possiamo mettere tra la cura di sé e lo scenario di sapere-potere che abbiamo indicato con il termine autosorveglianza. […] Se ne usciremo con una mossa soggettivante, sarà appunto un’uscita dall’autocontrollo: ciò potrà avvenire […] attraverso un allentamento della sorveglianza. […] Con un gesto che  sarà infine una presa di distanze da noi stessi».

Pier Aldo Rovatti, La filosofia può curare?
Raffaello Cortina, Milano 2006,
pp. 77-78.

Il paradigma terapeutico contro il quale Rovatti mette in guardia si regge su una certa idea di come dovrebbe essere un soggetto sano, efficiente, produttivo e padrone di sé. Un’idea che ha come corollario un diffuso senso di inadeguatezza e fragilità. Il punto di presa della cultura terapeutica sulla gente «è precisamente il senso di inadeguatezza personale di fronte» ad una gamma di pericoli che «possono unificarsi sotto il titolo: incapacità di sostenere il peso dell’altro e dell’alterità» (Ivi, pp. 25-26) . Resistere al potere vorrà allora dire in primo luogo resistere al potere che esercitiamo su noi stessi, decostruire la fortezza dell’Ego per lasciar spazio all’alterità, accettare la vulnerabilità ed esporci alla possibilità di una contaminazione che tanto più appare mortale per l’identità, quanto più sarà capace di produrre una trasformazione vivificante.

La cura di sé è sempre anche cura dell’altro e lo è, preliminarmente, in quanto cura dell’altro in noi, del nostro essere e poter essere altri. L’altro, rispetto al quale ci proteggiamo, e al quale invece occorrerebbe dare ospitalità incondizionata, è in primo luogo quello che minaccia la nostra idea di identità. È a partire da questo incontro rischioso tra un’identità esposta ed un’alterità che la minaccia che si apre la possibilità che qualcosa  di nuovo accada, che una trasformazione si produca.

“Che bello!” – Filosofia con i bambini

“Che bello!” è una storia semplice semplice, scritta da Antonella Capetti e illustrata da Melissa Castrillon, che dimostra come si possa fare filosofia con i bambini. La tesi è vecchia quasi quanto la filosofia stessa. La sosteneva già Epicuro circa duemilatrecento anni fa nella lettera a Meneceo: non si è mai troppo giovani, né troppo vecchi per filosofare, perché non si è mai né troppo giovani né troppo vecchi per essere felici.

Una bambina raccoglie un bruco, lo guarda, ed esclama: “come sei bello!”. Il punto esclamativo diventa subito un punto di domanda gettato come un amo nella mente del bruchetto: “cosa vuol dire bello?” Sebbene rivisitata in stile linguistic turn, la domanda ha ancora tutto il sapore del socratico ti estì. E socratico è il modo di procedere dello strisciante protagonista che interroga uno dopo l’altro tutti gli animali della foresta senza trovare mai una risposta che resista alla confutazione dell’amica cornacchia, pennuta epigona del demone socratico, incarnazione alata del momento negativo della dialettica, vero motore del procedere dello spirito.

“Questo è bello!” risponde l’orso col muso nel miele. Ma no, gracchia la cornacchia, quello è buono! L’amico orso ha fatto due errori in un sol colpo. Il primo è quello di aver portato un esempio concreto ove gli si chiedeva una definizione, il secondo di aver scambiato il bello con il “piacevole”. Ogni volta che si cerca una definizione occorre saper tracciare una linea di demarcazione, indicare un confine tra ciò che una cosa è e ciò che essa non è. Il bello non è il piacevole. Certo possono apparire simili, l’uno e l’altro piacciono, ma piacciono in modo diverso. Il miele, osserva la cornacchia, piace all’orso, la foglia al bruco, il bruco alla cornacchia.

Insomma, converrebbe Kant, il miele è oggetto di un desiderio tutt’altro che disinteressato. L’orso non si limita a contemplarlo e non desidera condividerlo, ma vuole goderne in modo esclusivo, lo vuole per sé. Esso soddisfa una sua particolare inclinazione, un gusto che riposa nella dimensione empirica della soggettività e che non pretende di elevarsi all’universale. Per dirla in modo semplice e con una battuta, l’orso non si offenderà certo se il bruco preferirà la propria foglia al suo miele. 

Conoscere, si sa, vuol dire trovare le differenze. La dialettica procede a definire i concetti più “per forza di levare” che di porre. Per via di negazione abbiamo stretto il campo intorno al nostro oggetto di indagine, togliamo via il piacevole e vediamo cosa ci rimane. 

Procedendo in questo modo il piccolo protagonista confuta uno dopo l’altro gli scoiattoli, il topo, il cervo, la talpa… e la stessa cornacchia in una negazione della negazione che sembra votare l’indagine allo scacco. Ma proprio quando scende la notte e il buio avvolge ogni cosa, la verità della bellezza si manifesta nello splendore di uno spettacolo che rimane innominato. “Che bello!” esclamano in coro gli animali col muso all’insù.

Il percorso socratico ha condotto sulla soglia di una risposta kantiana: il bello è ciò che piace in modo universale, disinteressato e senza concetto.

Che sia un bruco, poi, a porsi sulle tracce della bellezza sembra tutt’altro che casuale. Ci piace pensare che  il protagonista, dopo aver imparato a riconoscerla fuori, possa trovare in sé la bellezza presagita dalla bambina all’inizio della storia e che alla ricerca intellettuale corrisponda una effettiva trasformazione del soggetto che la compie.

Lessico della Pandemia – Ferita

Giuseppe D’Acunto ha curato per la collana Lessico pandemico, edita da Asterios, la voce “Ferita”. Il volume – esile e densissimo – è del tutto privo di riferimenti espliciti al tempo che stiamo vivendo. I due termini (Ferita – Pandemia) rimangono divisi da uno iato entro il quale il lettore è chiamato a collocarsi. Non si tratta di riaccostare questi due lembi per suturarli, ma di provare ad abitare la distanza che li separa.

Pensare la pandemia attraverso la nozione e l’immagine della ferita significherà in primo luogo intenderla come l’interruzione della continuità di ciò che ci è più proprio. La ferita – la pandemia, come discontinuità dell’autós.

Ferita
Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attesa, 1960

Ogni interruzione del proprio è sempre anche un’apertura attraverso la quale scorgere l’altro. La ferita, diceva Aldo Carotenuto a cui D’Acunto qui si rifà, è una feritoia, uno spiraglio, attraverso il quale possiamo guardare la nostra interiorità e, mediante questa, entrare in contatto con l’interiorità altrui. La ferita è un occhio “che guarda verso dentro e verso fuori”. È la condizione a partire dalla quale diventa possibile guardare, guardarsi, lasciarsi guardare. E guardare, lo sappiamo, non è vedere. L’occhio che vede considera l’altro nell’ottica dell’appropriazione, si approssima all’altro per cancellarne l’alterità, per farlo proprio. L’occhio che guarda è una ferita esposta all’altro, aperta alla meraviglia dell’inaspettato.

“[La nostra ferita può] trasformarsi in feritoia, ossia può diventare la matrice del nostro relazionarci con il mondo […] l’aculeo dell’interesse e della curiosità verso la vita”.

A. Carotenuto, Vivere la distanza, Bompiani, 1998 p. 166

Questa dolente apertura all’altro, questa possibilità della contaminazione, è anche l’origine di ogni creatività.

“Se il destino non ci ferisse […] non potremmo diventare ciò che realmente siamo”

A. Carotenuto, I sotterranei dell’anima, Bompiani 1993, p. 153

Al di là di ogni eziologia psicologica della ferita, D’Acunto si pone sulle tracce di una sua dimensione ontologica. Secondo la filosofa Maria Zambrano, il taglio del cordone ombelicale, segnando la separazione dal corpo della madre, lascia in noi una ferita che non è destinata a rimarginarsi. In una certa misura noi siamo questa ferita. Essa è ciò a partire da cui ci costituiamo come individui. Differenziandoci dall’unità orginaria mediante un taglio, avvertiamo il nostro essere come una mancanza da colmare. Ogni creazione umana, compresa la creazione di sé, scaturisce da questa originaria ferita.

“[Una ferita aperta è ciò che] ogni uomo, in quanto tale, ha in sé fin dalla nascita, anche se di solito cerca di occultarla o di tenerla chiusa ad ogni costo. […] Ogni creazione dell’uomo germoglia da quella ferita”.

M. Zambrano, Per abitare l’esilio. Scritti italiani, Le lettere, 2006 pp. 167-168.

Se così stanno le cose la continuità dell’autós è già da sempre interrotta e la pretesa di essere immuni da ogni contaminazione, di scongiurare, nascondere o guarire la ferita, si configura come una paradossale rinuncia a diventare se stessi.

Con gli occhi dell’artista

Occorrerebbe imparare a guardare con gli occhi dell’artista. Ecco un buon esercizio di trasformazione di sé e del mondo.

In una recente conferenza a margine della mostra d’arte contemporanea E luce fu, il filosofo Silvano Petrosino ha sostenuto che la peculiarità dell’artista è la capacità di guardare. Ne siamo capaci tutti in realtà, ma spesso ce ne dimentichiamo. Ci limitiamo a vedere, ma non guardiamo. Siamo affetti da una certa debolezza dello sguardo, da una sorta di cecità che dipende solo da noi. In esergo alla sua Piccola metafisica della luce Petrosino cita Saramago:

“Se vuoi essere cieco, lo sarai”.

J. Saramago, Cecità, Einaudi, Torino 1996, p. 124.

Ma che differenza c’è tra vedere e guardare? E qual è la facoltà dell’artista che dovremmo esercitare? Quando vediamo senza guardare, le cose sono presenti nel nostro campo visivo in una sorta di indifferenza. Esse si limitano ad apparire. Le vediamo, ma non ne cogliamo la specificità, l’unicità. Alla modalità del vedere si accompagna un certo modo di considerare la cosa come oggetto d’uso. Si tratta di una modalità del tutto naturale, indispensabile. Ma siamo capaci anche di un altro sguardo. Guardare significa in primo luogo prendersi cura della cosa che si guarda, considerarla non più in funzione della sua capacità di soddisfare il nostro bisogno, ma per quello che è.

“Da cosa si distingue l’artista dall’uomo comune? – E poi ognuno di noi è anche artista – Esattamente dal fatto che l’artista si prende cura, si sofferma, su quello che invece nella nostra vita quotidiana è semplicemente un oggetto”.

Mercoledì dell’arte contemporanea con Silvano Petrosino e Vanna Pescatori, Fondazione CrC

guardare le cose con gli occhi dell'artista
P. Cézanne, Natura morta con mele, olio su tela

Petrosino porta un esempio semplice ma significativo. Le mele che vediamo al mercato e che scegliamo per fare una torta le valutiamo sulla base del loro essere per noi buone, sane ecc… L’artista – poniamo ad esempio Cezanne – è in grado di sospendere questa modalità di rapportarsi alla cosa e la guarda in un modo nuovo, che la lascia essere quello che essa è in sé. Ciò che lo sguardo dell’artista guarda e che la sua opera conserva non è una mela tra le altre, ma questa mela. Nella prospettiva di Petrosino, dunque, la specificità dell’arte non risiede tanto nel rendere visibile l’universale nel particolare, ma nel far risplendere il particolare, lasciando che esso si stacchi dallo sfondo indistinto a cui il cieco vedere quotidiano lo lascia ancorato. Se il vedere fa apparire la cosa, il guardare la lascia risplendere, lascia che essa sia se stessa. Petrosino nomina qui un movimento che è al contempo un andare verso la cosa e un indietreggiare. Opera, tra le pieghe di questo discorso, una certa logica dell’ospitalità sulla quale dovremo tornare.

Lo sguardo dell’artista si prende cura della cosa lasciandola essere quello che è. L’essere se stessa della cosa è il suo splendore. Nel quadro di un’estetica dell’esistenza dovremmo chiederci: cosa succederebbe se oltre a imparare a vedere il mondo e gli altri con gli occhi dell’artista riuscissimo anche a piegare quello sguardo su noi stessi, sulla nostra stessa vita? Essa uscirebbe dalla dimensione anonima e ripetitiva di quella quotidianità standardizzata in cui a volte si perde e la vedremmo risplendere della sua unicità. Smetterebbe di essere una vita e si rivelerebbe come questa vita.

Guardare se stessi con gli occhi dell’artista significherà allora aver cura di sé, lasciarsi essere ciò che si è, accogliersi.

Che cos’è l’estetica dell’esistenza

Il progetto di un’estetica dell’esistenza inizia a delinearsi nell’ultima fase della riflessione di Michel Foucault. Nella primavera del 1983, circa un anno prima di morire, nel corso di un colloquio svoltosi a Berkeley, l’autore della Storia della sessualità afferma:

«L’idea del βίος come materiale per un’opera d’arte estetica è qualcosa che mi affascina. […] Quello che mi colpisce è che nella nostra società l’arte sia diventata qualcosa che è in relazione soltanto con gli oggetti, e non con gli individui o con la vita. E che l’arte sia qualcosa di specializzato, e che sia fatta da quegli esperti che sono gli artisti. Ma perché la vita di tutti gli individui non potrebbe diventare un’opera d’arte?».

Michel Foucault, Sulla geneaologia dell’etica: compedio di un work in progress, in H.L Dreyfus, Paul Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 263-265.

L’idea della vita come opera d’arte può essere tuttavia fuorviante. La stessa espressione “estetica dell’esistenza”, dobbiamo ammetterlo, suscita subito una certa diffidenza e sembra stridere come un ossimoro. Se al termine esistenza associamo profondità, responsabilità e impegno, la nozione di estetica evoca invece la superficie delle cose, la bella apparenza, l’effimero divertissement. Tuttavia l’estetica dell’esistenza non ha nulla a che vedere con un vacuo estetismo, con la ricerca del piacere, dell’esperienza unica e irripetibile o con una qualche forma di vita spettacolare.

L’estetica dell’esistenza di cui parla Foucault si configura come una ripresa della vocazione originaria della filosofia, che, fin da subito, ha inteso se stessa come esercizio e cura prima ancora che come una forma di conoscenza. Ma che rapporto sussiste tra cura di sé e dimensione estetica? Non rischia un simile approccio di incorrere nelle critiche che Platone muove ai sofisti?

Nel Gorgia Socrate sostiene che curare l’anima con la retorica, anziché con la filosofia, sarebbe un po’ come pretendere di curare il corpo ricorrendo alla culinaria o alla cosmetica, anziché alla ginnastica e alla medicina. Quelle hanno di mira il piacere, queste la salute. Tra le arti della salute, nella Repubblica, Platone accorda un primato alla ginnastica. Questa, infatti, diversamente dalla medicina, non cura il corpo quando è già malato, ma previene la malattia. Allo stesso modo l’esercizio della filosofia non vuole curare gli stati patologici, ma dar forma e vigore all’anima per prepararla ad affrontare la vita con il suo fisiologico carico di sofferenza.

Ecco, in ultimo, il senso di un’estetica dell’esistenza: essa è un certo modo di vedere la vita come un’arte di plasmare la vita, come un’attività autopoietica, come una continua creazione di sé.

Che cos’è Wunderkammer?

Wunderkammer.cloud vuole nominare uno spazio chiuso, privato, che ospita in sé le meraviglie del fuori.  È il progetto di un archivio di tracce, di ricordi, di link, di chances. 

A partire dal XVI secolo il termine tedesco Wunderkammer indica una stanza, uno studio privato, in cui sono raccolti oggetti –  siano essi naturali o artificiali –  capaci di suscitare meraviglia, curiosità, stupore. Di mettere in moto il pensiero e la fantasia, di provocare una ricerca di senso e innescare la creatività. 

Le stanze delle meraviglie dovevano apparire come delle collezioni di bizzarrie, di oggetti insoliti e stravaganti provenienti dai quattro angoli della terra. In esse si andavano stratificando, come in una memoria tridimensionale e tangibile, tracce di esperienze e di domande, di viaggi e di ricerche.

Lasciar scivolare lo sguardo su quegli scaffali affollati doveva generare uno stato di sovraccarico cognitivo e un senso di paralisi  simili a quelli che proviamo oggi nella  società della conoscenza. In questa Wunderkammer senza pareti, in cui siamo costantemente immersi, proviamo un senso di anestesia molto lontano dalla situazione emotiva cui allude il termine greco thauma che il tedesco traduce Wunder e l’italiano meraviglia e che, secondo Aristotele, sarebbe l’origine della filosofia. 

La meraviglia non è, infatti, l’esperienza del pieno, ma  l’avvertimento del vuoto. Tutti gli uomini, scrive Aristotele nel libro primo della Metafisica, aspirano per natura al sapere. Ciò che ci costituisce, dunque, non è né il possesso della conoscenza né tantomeno l’accesso all’informazione, ma la dialettica costante tra la consapevolezza di una mancanza e il desiderio di colmarla. Il proprio dell’uomo, ciò che più ci appartiene, è una non-appartenenza, un costitutivo essere in rapporto con l’altro, con il fuori, per colmare il vuoto che già da sempre ci abita. Se così stanno le cose per essere compiutamente uomini occorre prima di tutto prendere coscienza di questa mancanza. Non c’è tensione al sapere – e dunque umanità – senza l’avvertimento del vuoto, senza la meraviglia. Nel Simposio Socrate racconta di aver appreso da Diotima la verità sull’origine di Eros. 

“Quando nacque Afrodite, gli dèi tennero banchetto, e fra gli altri c’era Poros (l’Espediente), figlio di Metis (la Perspicacia). Dopo che ebbero tenuto il banchetto venne Penia (la Povertà). […] Successe che Poros, ubriaco di nettare, […] appesantito com’era, fu colto dal sonno. Penia, allora, per la mancanza in cui si trovava di tutto ciò che ha Poros, giacque con lui e concepì Eros”

Platone, Simposio, a cura di G. Reale, Bompiani, p. 179

Eros, l’amore per la bellezza, che per Platone è anche amore per la verità, è figlio di Penia, cioè di privazione, povertà, mancanza. Non si ama che ciò che non si ha. Per amare il sapere, per poter aspirare ad esso e porci sulla strada che ci porta ad essere uomini, occorrerà in primo luogo imparare a sentire lo stato di indigenza nel quale, spesso senza consapevolezza, ci troviamo. 

Di qui la scelta iconografica di Wunderkammer.cloud: spazi ancora indeterminati, vuoti, carichi di possibilità. Stanze spoglie che recano i segni del passato, ma che sono sempre ancora da  riprogettare per dare luogo a nuove forme di vita. Stanze delle meraviglie in potenza, dunque, queste stanze vuote sono piene di meraviglia.